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Arna, l’orrendissima Alfa

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Arna
Se siamo così legati alle automobili, è perché sono una buona metafora della nostra storia. Personale e collettiva. Prendiamo le Alfa Romeo, per esempio.

Dopo essersi costruita una fama di eccellenza tecnica agli albori dell’automobilismo, nel 1933 l’Alfa divenne un’azienda pubblica, gestita dall’IRI. Fu gestita con attenzione per tutto il Dopoguerra e gli anni Sessanta, poi agli anni del boom seguirono quelli dello sfascio.

Nel 1972, con l’industria tedesca in profonda crisi (Audi inesistente, Volkswagen in crisi di idee, BMW in crisi di affidabilità), le auto italiane avevano un’occasione d’oro per imporsi in tutto il mondo – o quantomeno, in tutta Europa.

Alfa Sud Sprint
Alfasud Sprint

La Alfa aveva dalla sua un eccellente ufficio tecnico e alcuni dei migliori designer del mondo (Bertone, Giugiaro, Pininfarina, Zagato), ma ce la mise tutta per farsi male da sola ad esempio con l’Alfasud, una bella idea realizzata male (un grande classico dello Stivale) e per la quale i tedeschi coniarono il detto “Der rostet schon im Prospekt“, ovvero “Arrugginisce già nella brochure”.

Eppure i modelli Alfa Romeo avevano ancora appeal. Il problema è che per tutti gli anni 70 non vennero più rinnovati, arrivando al traguardo degli anni 80 vecchi nell’aspetto e nella consistenza tecnica e male in arnese nella fattura, al punto da deteriorare in maniera forse irreparabile l’immagine del marchio.

Così, all’inizio del nuovo decennio, i vertici dell’Alfa Romeo pensarono di rivolgersi al popolo che più aveva dato dimostrazione di qualità costruttiva: i giapponesi. Venne perfezionato un accordo con la Nissan, che portò alla costituzione di “Alfa Romeo Nissan Automobili”, per gli amici ARNA. Sembrava il matrimonio perfetto: il genio tecnico e lo stile italiani realizzati con la meticolosità e la qualità giapponesi.

Come in tutti i matrimoni di questo tipo, però, si tende sempre a sottovalutare il rischio che possa accadere l’opposto; come, nel caso dell’Arna, puntualmente avvenne: gli strateghi pensarono bene di unire lo stile nipponico alla meccanica italiana, col bel risultato di ottenere prestazioni mediocri, personalità deludente, qualità insufficiente.

L’Arna nasceva sul corpo della compatta Nissan Cherry con un motore e trasmissione made in Alfa Romeo, il tutto assemblato da linee robotizzate a Pratola Serra, e garantito orgogliosamente contro la ruggine per 6 anni (tanti, contando che l’Alfasud mostrava i primi segni già dopo 6 mesi…).

Tecnicamente aggiornata in fatto di sospensioni, teoricamente brillante grazie ai motori boxer, l’Arna era spaventosamente sgraziata e oltre alla concorrenza delle varie Fiat Ritmo, Lancia Delta e VW Golf, doveva fare i conti con quella “in casa” della 33, arrivata negli stessi mesi e un po’ più grande e costosa, ma ben più intrigante.

Gli italiani, dopotutto, non sono fatti come i giapponesi: e preferivano un po’ di ruggine in più a una linea così imbarazzante, nonostante la martellante pubblicità che ventilava l’idea prediletta dagli italiani del prestigio a basso prezzo: “Arna, e sei subito Alfista!” o annunciava direttamente l’affarone: “Arna – A.A.A. – kilometrissima Alfa”.

Altro che affare: poco amata in patria, ancor meno all’estero (molti importatori si rifiutarono di distribuirla), l’Arna resta il capitolo più buio di un periodo già molto buio della storia Alfa Romeo, concluso con la cessione al Gruppo Fiat nel 1986 che prese, fra le sue prime decisioni, quella di interrompere immediatamente la produzione dell’Arna.

Se ne erano vendute poco più di 50.000 – una miseria – molte delle quali riacquistate dallo Stato per affibbiarle a poliziotti, ministeri e amministrazioni varie. Le altre in gran parte cannibalizzate per riparare vecchie Alfasud: arrugginite, sì, ma almeno tutte italiane.

https://www.youtube.com/watch?v=bi1ZyDX6e6Y

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