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Intervista a P.Lion

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P.Lion
Abbiamo intervistato P. Lion, pseudonimo di Pietro Paolo Pelandi, musicista, cantante e produttore discografico italiano.

Ti do le chiavi della Delorean, puoi tornare in qualsiasi data degli anni 80. In che anno vai e cosa fai?

Sicuramente andrei a fine del 1983 quando entrammo in studio per realizzare il primo album, tra l’altro richiesto di fretta dalla Carrere Francese e vorrei avere almeno il doppio del tempo disponibile. Perchè lo realizzammo in venti giorni, con alcuni brani veramente abbozzati al punto che andai a ripescare le cose più antiche mie. Ad esempio “song for you” è un pezzo lento che avevo scritto quando avevo 14 anni. Quindi mi piacerebbe aver avuto più tempo per curare di più il disco. Anche il brano “Dream” anche se è andato benissimo ed è stato sigla della top 50 in Francia, però tutte le volte che lo sento, qualcosina avrei sistemato.

Come hai vissuto quella decade? Erano gli anni che si poteva fare da zero a mille in pochisismo tempo.

La porte positiva è che ti trovi di colpo ad avere successo, sicuramente piacevole. Di contro, sei proiettato nel giro di pochissimo in un mondo che non conosci. Per me è stato abbastanza traumetico il discorso di mettermi davanti a una telecamera. Per dire in discoteca la cosa era più tranquilla, avevi il contatto con le persone, invece davanti a un teleobbiettivo era ben diverso. Era un mondo nuovo per tutti. Dal mio mondo di impiegato tecnico in un industria tessile trovarmi con una troupe cinematrografica per registrare videoclip a Parigi era ben diverso.

Come sei entrato nella musica?

Da sempre sono appassionato, fin da quado avevo 4/5 anni, avevo trovato questo mobile nero in casa e ho scoperto che era un pianoforte. La cosa mi piaceva di più era di inventare e di comporre.

C’era molta creatività e sperimentazione nella musica, c’era però anche la melodia.

Secondo me in quel periodo erano ancora canzoni con lo schema strofa, ponte, ritornello e special. Eri costretto ad andare in studio per registrare, in casa al massimo potevi avere un quattro piste per registrare, solamente per fare dei provini. E questi demo però erano talmente ridotti all’osso che se c’era qualcosa di buono, non lo percepivi. Non come oggi che hai 50.000 possibilità di suoni, di atmosfere particolari, lì o c’era la canzone o la cosa non reggeva assolutamente.

Ho fatto il deejay per 25 anni e Happy Children è l’unico disco che ancora oggi fa muovere la pista.

E ancora più incredibile per me essere ancora qui dopo così tanti anni con questa canzone. Forse, una piccola analisi che mi permetto di fare e che Happy Children è nata in un modo molto spontaneo, tutto suonato, nessun sequencer, non ci sono cose finte, campionamenti, cose del genere. La batteria era particolare perchè era la Simmons, non era una batteria acustica, ma era suonata da Bruno Bergonzi. Le tastiere erano suonate da me, senza sequencer, il saffono era vero.

Per me Happy Children, come suono, ha la stessa carica di Sweet Dreams degli Eurythmics. E tutti e due i brani sono molto difficili da ricreare.

Ti ringrazio per il paragone. Si sono assolutamente difficili da ricreare, la dimostrazione è che durante gli anni hanno tentato di fare remix, versioni diverse, ma alla fine nessuna con il tiro dell’originale.

Oggi tu hai uno studio di registrazione.

Mi è sempre piaciuto molto anche il fattore tecnico e ho avuto la fortuna di vivere la transazione da analogico a digitale e sono stato uno dei primi in Italia negli anni 90 che faceva mastering su cd, sound design e cose del genere. Questa passione per la tecnologia mi ha portato a collaborare con un gruppo di ragazzi per realizzare una regia per il Dolby Atmos. Ho studiato tanto sopratutto all’inizio, oggi vai su internet e puoi avere milioni di informazioni, ai tempi bisogna acquistare libri Americani e pian piano studiare e cercare di far pratica.

 

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