Se avete visto quel piccolo capolavoro Marvel che è “I Guardiani della Galassia“, saprete che la trama parte col piccolo Peter Quill che viene rapito da una sgangherata banda di pirati alieni: è il 1988. Il resto della storia si svolge 26 anni dopo, in un 2014 tipicamente Marvel popolato di astronavi e minacce galattiche, e ruota tutto attorno a due oggetti di cui uno arriva dritto dal 1988: il Walkman con cui Peter ascolta le cassette lasciategli in eredità dalla madre morente, che diventano il suo unico legame con la famiglia di origine.
A pensarci bene, l’unica cosa in comune tra il vero 2014 e il 2014 immaginario del film è proprio la scomparsa delle musicassette, e con loro di un bel pezzetto del nostro passato con la sua quotidiana frequentazione di questo oggetto.
Anche se verso la metà del decennio ha cominciato a diffondersi il CD, gli anni 80 sono stati gli anni delle cassette: troppo più pratiche dell’ormai sorpassato vinile, e anche del fantascientifico CD che, pur avendo iniziato a diffondersi verso la metà del decennio, costava caro e non si poteva registrare.
Alzi la mano chi ha attraversato gli anni 80 senza avere un Walkman, un’autoradio con mangiacassette o almeno un amico che portava lo stereo a pile in piscina o in campeggio.
Nemmeno vivendo su Marte avresti potuto farne a meno: persino io, che fino ai 7 anni avevo vissuto senza telefono (fisso), radio e vinili, feci il mio ingresso nel decennio con una musicassetta.
Ma visto che il mio impianto aveva una piastra sola non era prevista la duplicazione, e così non ebbi a che fare con le cassette vergini per parecchi altri anni, ovvero fino all’estate della quinta elementare quando venni iniziato ai misteri della chimica dei nastri dal DJ della colonia estiva, dove passai due settimane riuscendo se non sbaglio a non lavarmi mai: ricordo solo che lui era molto più grande di me, addirittura 14 anni, e che si chiamava Tiziano.
All’epoca era naturale andare nei negozi audio – ma anche nelle ferramenta e dagli elettricisti – a comprare un paio di “vergini” o di “bianche”. E a nessuno sarebbe venuto in mente di denunciarti per tratta delle schiave, dato che così si chiamavano le cassette in attesa di registrazione: sulle quali in teoria era legale registrare solo le proprie esibizioni canore, in attesa che qualcuno inventasse X-Factor, e dove in pratica si riversavano singoli e interi album da distribuire ad amici e fidanzate (come nel film fa persino la mamma di Peter Quill, un dettaglio probabilmente sfuggito alla SIAE).
Le cassette, scoprii grazie a Tiziano, non erano tutte uguali. C’erano le tedesche BASF e TDK, le rare olandesi Philips (che avevano inventato il formato nel lontano 1962), le americane Scotch/3M e le giapponesi: Fuji, Maxell e soprattutto Sony. Le tecnologie che giravano erano più o meno le stesse: nastri magnetizzati a base di ossidi di ferro (Type I), o di cromo (Type II), o miste (Type III) o particelle metalliche non ossidate (Type IV). Gli stereo dell’epoca avevano addirittura un selettore con due posizioni per leggere correttamente i nastri: Position I era per le cassette alla ferrite, vale a dire o per chi non aveva soldi o per registrarci le effimere hit dell’estate da consumare in fretta a furia di Rewind; Position II era per le cassette al cromo, quindi per i figli dei ricchi e/o gli album destinati a durare nel tempo.
Le cassette che avevi in camera o in macchina erano, come sempre succede nelle categorie merceologiche di larga diffusione, un indicatore attendibile del tuo stato sociale. Se avevi le Raks eri un cinno proletario, se avevi le Sony UX stavi nella classe media (allora c’era) e se sfoggiavi le Metal-ES o le Basf Metallic eri figlio di ricchi dentisti con impianti stereo annegati nella parete del salotto. Alcune cose, però, erano in comune a tutte, come l’odore della plastica, che mi sembra di sentire ancora adesso, le linguette da rompere se volevi bloccare la sovraincisione o la consistenza ambigua delle custodie, tutte troppo fragili.
Dalle mie parti Basf e Philips erano un tantino snobbate e il top erano le Sony, marca che del resto all’epoca per la maggioranza della gente era sinonimo di Hi-Fi. Le Sony, sentenziò infatti Tiziano, sono un gradino sopra.
Si partiva dalle C60 e C120, per salire alle FX e HF – credo stesse per High Fidelity – in tagli da 60, 120 e 240 minuti (imparai più tardi che le 240 erano una sòla, perché le bobine di nastro così grosse e pesanti come minimo affaticavano le testine, rallentando magari la velocità delle canzoni e soprattutto scaricavano a rotta di collo le povere pile alcaline di allora); poi si saliva alle HF-S per arrivare alle UX e UX-Pro, con le quali si entrava nell’olimpo della Position II: Chrome. Più tardi arrivarono le CDit, che fin dal nome incoraggiavano a piratare gli ancora rari supporti ottici, come peraltro tutti noi facevamo senza bisogno di incoraggiamenti.
Poi si passava alla roba seria, diciamo professionale: avevi speso 4.500 lire per una cassetta vuota, quando un album intero ne costava 11 o 12.000, ma ti sentivi già un DJ. C’erano le FeCr – position III – e le più esotiche di tutte, che costavano il quadruplo di una UX: le Metal-ES, o Metallic, addirittura Position IV: ne comprai una per The Joshua Tree degli U2, ma tanto il mio stereo Sanyo la posizione IV non l’aveva, quindi vabbeh.
Questo per quanto riguarda Sony, poi ognuno aveva le sue sigle: A, AR, UR, GI, XL, MX-S. Ma io ero un fedelissimo delle Sony, non comprai praticamente mai altro. Passai le medie aspettando di avere anch’io 14 anni come Tiziano, per poter legittimamente comporre le mie compilation e fare colpo sulle ragazze. Non vedevo l’ora, e cominciai a studiare la faccenda basandomi sulle informazioni che mi passava il mio amico Massimo, il cui zio aveva una discoteca in provincia. L’estate dei miei 14 anni la raggiungemmo in motorino, e lì mi fece ascoltare l’ultimo prodigioso ritrovato della tecnica, ovvero il primo CD della mia vita: un brano ballabile degli Erasure sparato a un volume che al momento mi sembrò inverosimile. Ma il suono, quello mi sembrò addirittura celestiale, e capii che con le cassette non ci sarei mai arrivato. Qualcosa era cambiato per sempre: la qualità e la praticità del CD facevano sembrare il Walkman e le cassette due lasciti dell’età della pietra, e in effetti nel giro di pochi anni tutto cambiò.
Di mie compilation ne realizzai ben poche.
Di “vergini” non sentii più parlare.
La verginità se l’era portata via il CD, e l’età dell’innocenza era finita.
Almeno per me.