Il mio rapporto con le firme è stato da subito contradittorio. Uno dei primi capi firmati di cui mi ricordi era un giubbotto jeans Americanino, con il logo a tutta schiena che campeggiava sulle spalle colossali del ragazzo più grosso del paese, un rugbysta di due metri curiosamente soprannominato Bubu. Quando li vidi, lui e il suo giubbotto, ricordo che mi domandai dal basso come fosse l’Americanone, se quello piccolo era così.
Era probabilmente il 1985 o 1986 e non avevo idea di cosa stesse per succedere. La faccenda delle firme, fin lì assolutamente irrilevante, stava per diventare un imperativo categorico per tutti i ragazzi, Giorgio Armani una superstar globale, Elio Fiorucci messo al pari di Andy Warhol. Il problema delle gonne corte o lunghe, che per duemila anni era rimasto di esclusiva pertinenza delle donne, stava per estendersi ai maschi: quanto dovessero essere alti i jeans sulla caviglia, quale fosse il numero di risvolti che garantiva la perfezione ai pantaloni e ai giubbotti, come dovesse essere fatto il carrarmato delle scarpe erano diventate questioni che si dibattevano per ore nell’intervallo, al bar e in trasmissioni di approfondimento di alto livello (“Non è la Rai”).
E non si parla dei paninari, perché il prerequisito per essere un paninaro era di poter spendere lo stipendio di una persona normale in vestiti trendy (che “certe volte son dei capi orrendi”, ammonisce Elio che quegli anni li ha vissuti). Cosa che non ho mai neppure lontanamente pensato di poter fare. Ma paninari o no, la spinta verso il conformismo nei ragazzi era fortissima, e da questa spinta conseguiva, per il Secondo Principio di Newton, una spinta uguale e contraria a stracciare i maròni ai genitori.
Genitori che non potendone più di tenere il passo dell’irrinunciabile capo di turno (il giubbotto jeans Americanino, il bomber Avirex, la felpa Best Company, il giaccone Henri Lloyd, le scarpe Timberland eccetera), ovviamente disponibile solo nei carissimi negozi del centro, in qualche caso si rivolgevano alle bancarelle del mercato, dove naturalmente dei pregiati manufatti non c’era traccia. C’erano in compenso marchi simili, fatti apposta per poter essere venduti legalmente, nel cui trabocchetto a volte l’incauto genitore cadeva.
E così li vedevi arrivare a casa sorridenti con una tuta Addas, ovviamente con tanto di tripla banda, o le ragazze con una borsa Mandarancia Drink al posto dell’ambitissima Mandarina Duck, ai tempi una certificazione di femminilità più potente di un body di pizzo nero. I banchi del mercato straripavano di scarpe Rebook e Lotto (queste apparentemente originali, mah) mentre molto più rare erano le scarpe Like, effettivamente geniali nel nome, un po’ meno nel logo (ovviamente identico allo swoosh), che all’epoca mi facevano orrore ma oggi sono le mie preferite.
Se ai tempi a rinunciare al capo firmato potevi ancora ancora farcela, nemmeno uno con la personalità di Napoleone avrebbe potuto pensare di andare in giro a testa alta con una tuta Addas addosso. Per cui cercavi disperatamente di farla riportare indietro senza ledere l’amor proprio del genitore (allora usava così), con ogni scusa disponibile: troppo stretta, troppo larga, troppo chiara, troppo scura, troppo leggera, troppo pesante, guarda: meglio la Lotto di Maurizio che costa uguale.
E così sono riuscito ad arrivare all’età della ragione come un ragazzo qualunque, senza il montone Avirex da un milione ma anche senza le Like da ginnastica da diecimila lire. Che a ben vedere è stato un peccato, perché adesso per un paio di Like vere farei carte false.