Strano destino quello di Terence Trent D’Arby, esploso nel 1987 come una delle voci più nuove e originali del decennio – di cui segna per certi versi un punto di svolta – e morto senza morire una decina di anni dopo, dopo aver cambiato identità in modo ben più radicale rispetto a Prince, visto che non solo Terence ha legalmente cambiato nome ma rifiuta anche tutta la sua musica e la sua vita precedenti.
Ma facciamo un passo indietro. Terence Trent Howard nasce a New York nel 1962, figlio di una cantante gospel che ben presto si separa dal padre. Adotta così il cognome del padre adottivo, il pastore James Benjamin Darby, aggiungendo un apostrofo. Terence ha talento per la boxe e si sposta in Florida, dove a 18 anni (1980) diventa campione dei pesi leggeri e si conquista una borsa di studio nell’esercito, ma preferisce iscriversi all’università. Dura solo un anno, poi cambia di nuovo idea e si arruola.
L’esercito lo mette di stanza in Germania (siamo ancora negli anni della Guerra Fredda, per quanto agli sgoccioli) ma anche lì, dopo un solo anno, Terence si mostra insofferente alle regole: una sera esce senza permesso e viene condannato ed espulso per diserzione. Resta per un po’ in Germania cantando con band locali, poi si sposta nella ben più promettente (per un musicista) Londra.
Siamo nel 1986. A Londra Terence incontra il produttore Howard Grey, che ha già lavorato ai migliori album di UB40, Scritti Politti e The Cure.
I due sono coetanei, entrambi si chiamano Howard, entrambi sono espatriati (Howard è australiano) e insomma si prendono in simpatia. Da quel feeling, dalla personalità debordante di Terence e dalla classe di Howard nell’inverno di quell’anno nascerà “Introducing The Hardline According To Terence Trent D’Arby”, uno dei titoli più lunghi e spavaldi che la storia del pop ricordi (almeno fino all’avvento dei rapper neri). Così lungo che in tutte le classifiche dell’epoca esce regolarmente abbreviato in “Introducing the Hardline…” e all’inizio anch’io resto convinto che l’album si chiami “Introducing the Hardline puntini puntini”.
Di quell’album Terence dirà che è “il più importante nella storia della musica rock dopo ‘Sgt. Pepper’ dei Beatles”. Non si sa se le sue parole siano o meno state esagerate e di sicuro le classifiche dei migliori album rock mettono ‘Sgt. Pepper’ al primo posto e “Introducing the Hardline…” oltre la cinquecentesima posizione, ma insomma, l’album in effetti la sua importanza ce l’ha.
Intanto perché lancia TTD come performer a tutto tondo, una specie di nuovo Prince: canta, nell’album ha suonato da solo tutte le parti strumentali, balla, è bello, è sexy ed è mostruosamente bravo tanto con le hit ritmate (“Dance Little Sister”) che con le ballate (“Sign Your Name”). Personalmente, la prima cosa che mi colpisce di TTD è la sua breve apparizione su una rarissima motocicletta Indian Chief nel video di “Sign Your Name”; ma dopo averlo ascoltato meglio mi rendo conto subito che tra lui e, mettiamo, i Milli Vanilli c’è una certa distanza. Anche perché la track list di “Introducing the Hardline eccetera eccetera” contiene un po’ po’ di roba tra cui “If You Let Me Stay”, “Wishing Well” e insomma siamo già a quattro o cinque singoli da top 10 o top 5 in mezzo mondo, che spiegano come mai l’album arrivi direttamente in vetta alla classifica inglese (dove resta per nove settimane), si arrampichi poi al numero uno della U.S. Billboard R&B e dopo aver venduto un milione di copie nei primi tre giorni (!) arrivi poi a un pazzesco 12 milioni di copie.
Nel 1987 insomma TTD è appena sotto Dio, e il problema con uno che a quelle altezze ci si sentiva già da prima è che la sua personalità diventa ancora più egocentrica. Ponendosi come una specie di profeta della musica, TTD cerca di sfornare un altro album di grandi pretese, oltre che contenente il suo nome nel titolo: “Terence Trent D’Arby: Neither Fish Nor Flesh” del 1989, album neanche a farlo apposta né carne e né pesce che finisce prevedibilmente in un fiasco, con il quale TTD chiude il decennio e la sua esperienza londinese.
Ci vorranno infatti 4 anni e un trasferimento a Los Angeles prima di ascoltare “Terence Trent D’Arby: Symphony or Damn”, album di ben altra qualità nel quale TTD conferma la sua originalità, la sua spavalderia e ritrova il tocco di un tempo. “Do You Love Me Like You Say”, “Delicate” e “She Kissed Me” mostrano un’evoluzione in strumenti e timbrica (molto più rock) conservando però la sua caratteristica voce graffiante e i testi, diciamo così, un tantino egocentrici (“I believe your daddy didn’t treat you right – So it seems now TTD must pay”); ma soprattutto lasciano affiorare segni di una deriva mistica (in versi come “Until I find the river – I won’t be satisfied with who I am”, per non parlare della opening track “Welcome To My Monasteryo”).
Come tutti i grandi artisti, TTD non si sente mai arrivato e con il successivo “Terence Trent D’Arby Vibrator” (titolo dal fine doppio senso) cambia tutto: via i dreadlock per capelli cortissimi e ossigenati, e svolta musicale che recupera addirittura la musica soul e black alla Otis Redding e Marvin Gaye. L’album non ha un gran successo, ma almeno “Holding On To You” è assolutamente una perla.
A fine anni 90 Terence è ancora abbastanza sulla cresta dell’onda da essere chiamato dagli INXS a sostituire nientepopo di meno che Michael Hutchence (i due erano del resto amici) per cantare alla cerimonia d’apertura dei giochi olimpici di Sidney del 2000. Nel 2001 pubblica l’album “Wildcard” che va forte soprattutto in Italia, dove peraltro riesco finalmente ad andarlo a vedere in un concerto poco affollato, in cui alterna successi vecchi e nuovi con una presenza scenica e uno sguardo per le sue fan che tengono più del monaco buddista che non del cantante rock.
Infatti nel 2002 Terence si fa cambiare legalmente nome in Sananda Maitreya, torna in Europa vivendo prima a Monaco di Baviera e poi a Milano, città di cui si innamora anche per il fatto di aver nel frattempo sposato un’italiana (vi risparmio la googolata: si chiama Francesca Francone e i due hanno due figli). Continua a lavorare col nuovo nome e dichiara di servire solo la musica – che ha avuto di nuovo un certo successo, soprattutto per colonne sonore di film.
Sarò banale, ma all’artista in pace con sé stesso di oggi preferivo quello eccessivo e illimitato degli anni Ottanta. Ma ovviamente, sono di parte.